martedì 16 luglio 2013

Occupare deve essere nobilitante. Il caso deludente del Teatro Rossi a Pisa.






Occupare.

Significa prendere possesso di uno spazio. L'occupazione è una forma di protesta, anzi, no, di rivendicazione che in massima parte è legittima. Se ci sono spazi che gli enti lasciano andare in decadenza, chi reclama un proprio luogo per vivere, comunicare, aggregarsi può appropriarsi di quel luogo, provare a mantenerlo in vita, sottrarlo all'incuria e - contemporaneamente - riconquistarlo ad una funzione. Nella cultura di sinistra in cui io stesso sono cresciuto, l'occupazione è un'azione politica e sociale che tendenzialmente ispira simpatia e richiama approvazione. Io stesso ho seguito con passione le vicende del Teatro Della Valle a Roma e, per quel che leggo, approvo ciò che un giovane collettivo lucchese ha fatto con il dismesso campo ricreativo delle Madonne Bianche a Lucca. Ora però, vorrei fare un puntualizzazione.

L'altra sera sono andato a Pisa dove da mesi è in atto un'azione di occupazione presso il Teatro Rossi, splendido edificio che gli enti pisani stanno lasciando andare in malora.

Il progetto Teatro Rossi Autogestito mi aveva incuriosito da tempo, sicché - immaginandomi una situazione simile a quella romana - sono andato a vedere uno spettacolo promosso dal quel collettivo.

Non mi piace. Così proprio non mi piace. Se si occupa un posto per mantenerlo in vita, lo si deve far vivere e lo si deve curare. Non trasformarlo in un puzzolente, trascurato baraccone che accoglie male, anzi malissimo il visitatore, lo spettatore, anzi, dirò, il sostenitore. Al di là dello spettacolo molto brutto (ma un luogo deputato alla creatività deve scommettere e quindi può anche ospitare opere che risultino non propriamente degne), mi hanno intristito le seguenti cose.- la sciattezza fricchettona(che a Pisa, ahimè, sembra aver dimora sempre più spesso): lo spettacolo doveva iniziare alle 7.30 ed è iniziato alle 20 e 20. Cioè cinquanta minuti dopo.
- i responsabili non davano indicazioni utili e precise salvo quella che l'entrata sarebbe costata 3 euro (che diamo ben volentieri per la causa...ma ora li darei un po' meno)
- La prima parte dello spettacolo si svolgeva nel foyer. Perchè nessuno aveva ripulito l'ambiente, lo aveva ordinato, sgomberato di accatatamenti vari, pulendo i bagni maleodoranti?
- Nella platea del teatro aleggiava un forte odore di urina, non felina. Anzi umana.
- Il pubblico era formato, in tutto, da sole otto persone me compreso. Nessuno dei membri del collettivo era presente. Sono uscito a metà spettacolo, onestamente respinto da ciò che vedevo, ed ho trovato seduti per terra sul marciapiede di fronte al teatro, a fumare, i cinque o sei esponenti del comitato dell'occupazione. Tristezza e rabbia: perché non erano dentro? Che senso ha promuovere e voler far rinascere un progetto se poi non si caldeggia e si sostiene ciò che in esso si fa?
Se questa è l'occupazione, io dico di no.
Dico che allora preferisco che a distruggere il meraviglioso gioiello pisano sia l'incuria del comune e non la sciattezza di giovani nei quali ho creduto e che mi hanno deluso. Questo, se permettete, è un lusso che concedo solo ai politici di questo maledetto paese.

Firmato, un incazzatissimo, acidissimo, sempre più corrosivo uomo di sinistra (colto, per giunta).

lunedì 15 luglio 2013

Tanti auguri signor Rembrandt.


Oggi si festeggia il compleanno di Rembrandt. Chiunque abbia incontrato realmente l'arte di questo pittore, sa che si tratta d'un fuoriclasse di prim'ordine. Gironzolando per mostre e musei avevo avuto modo di confermare il mio amore per l'artista olandese ma la grande mostra berlinese del 2006 mi regalò emozioni talmente profonde che da allora considero Rembrandt uno dei miei cinque pittori preferiti in assoluto. 
Rembrandt visse in un'epoca, il Seicento, in cui l'intera Europa si dedicò allo studio delle relazioni conflittuali - eppur feconde - fra ombra e luce. I più grandi pittori del secolo incentrarono le proprie ricerche su questo ossimoro che ha un connotato indubbiamente naturalistico ma anche un alto potenziale simbolico; in esso si filtrano la passione per la verità delle cose che la Nuova Scienza andava coraggiosamente propugnando e al contempo i misteri dell'inesplicabile, cercando, tramite essi, un palpabile segno del divino nel contingente. Così aprì la strada Caravaggio e lo seguirono i maestri: Velasquez in Sapgna, De la Tour in Francia, il Guercino in Italia. In Olanda, Rembrandt, perseguì la via senza esserne a conoscenza. In questo risiede la sua grandezza e unicità. Egli non proviene dal nitore feroce di Caravaggio, non cerca la naturalezza delle cose attraverso il dato reale. Egli persegue la costruzione dell'immagine entro una sfocatura dorata, dove luce significa polvere stellare e tenebra vuol dire assenza. Le creature e gli ambienti dell'artista galleggiano sospesi fuori dai contesti. Il buio che le attornia sottrae sostanza, esprime un nulla spaventoso e carico di mistero. Nel buio di Caravaggio intuisci la creazione dei corpi in scena: quello del pittore italiano è un procedimento teatrale, razionale. Nell'oscurità di Rembrandt ci sono solo corpuscoli di vuoto, fuliggine, assenza di materia. 



Ne emerge un senso drammatico ma non teatrale, bensì lirico, della pittura. La verità, la naturalezza si raggiungono per l'intensità emotiva. I ritratti vibrano, quasi sempre malinconicamente. I personaggi sono in bilico su un mondo che ha una percezione angosciosa del trascorrere del tempo. Semplici scintillii di luce opaca svelano antichi interni domestici, dove anche i profeti assumono umili identità, contorni sfocati dall'incertezza. 



L'occhio del pittore è umano, ama i suoi soggetti. Li consola ma non può che restituirci un'idea dolente, quella di una umanità che non sa dove sta andando. Confusa e in attesa. Ma anche progressista, decisa a slanciarsi a volte verso quel futuro da debellare.



L'amore per Saskia, compagna di una vita morta prematuramente, si riverbera su ritratti meravigliosi.



 L'intimità che lo lega alla donna, l'affettuosa carezza che le riserba nel modellarne le carni morbide e i velluti delle vesti, è così moderna ed attuale che ci racconta un modo a noi ben noto di vivere assieme, condividere le ore, affrontare quell'incertezza che l'epoca, anche la nostra, distende sul futuro come una gigantesca palpebra.



giovedì 11 luglio 2013

Poesia della notte estiva

Il rettangolo stellato
s'apre su lidi di suono.
Nere risacche di rane,
echi di lucciole bianche.

Cresce l'erba e riposa
sotto azzurre pianure.
Passi di danze lontane,
calano corolle stanche.

Passi di oscuro cacciare,
agguato, denso velluto.
Transiti di stelle vane,
l'eco risponde: tu, anche.





giovedì 4 luglio 2013

La bellezza degli uomini.


Il fascino del ritratto, come peculiare genere artistico, in genere ci raggiunge tardivamente. Da adulti. Non è difficile comprendere il perché di questo fatto. Si deve avere un po' di vita alle spalle per capire a fondo questi documenti magnetici. L'esperienza ci aiuta ad andare oltre il mero virtuosismo mimetico. Ai bambini e ai giovani piacciono i ritratti che sono più simili al vero, naturalistici, fotografici. A noi adulti, invece, piacciono quelli in cui, oltre la tecnica illusionistica, ritroviamo l'arguzia, la testa pensante, lo sguardo che rivela. Insomma: il ritratto interiore.
Tra tutte le tipologie di dipinto, il ritratto è quello che crea maggior tensione ed imbarazzo nell'osservatore attento. A volte ci trasforma in voyeur, altre ci costringe a restituire a quell'immagine posta oltre la finestra della cornice, un'emozione reale: interesse, affetto, astio o attrazione, commozione o complicità. I grandi ritratti ci chiamano ad una partecipazione che travalica le epoche e ci riconnette non solo con individui ormai scomparsi e, molto spesso, sconosciuti, ma con tutto il senso profondo di una civiltà al cui fluire apparteniamo. Un grande ritratto è come un'opera di Shakespeare. Può raggiungerti da date antichissime eppure svelarti l'animo dell'uomo così come è, realmente, immutabile nello scorrere del tempo. Il grande ritratto, così come la grande tragedia, ci rivela chi siamo. La finestra diventa uno specchio e ciò che vedi non è altro che la tua anima vestita d'abiti d'altre epoche.
Questo che vedete è un gradissimo ritratto. Risale all'incirca agli anni Venti del Cinquecento, l'epoca truce e cupa in cui il Mondo comprese d'essere d'una sostanza e d'una forma ben diverse da quelle che si era sempre supposto. E' un'epoca fatta di tinte terrose e verde bottiglia, su cui si stampano a contrasto stoffe sontuose e musiche di flauti e liuti.
Nonostante le incertezze del tempo e della sua vita, Parmigianino, pittore emiliano di grande talento, seppe scovare la bellezza degli uomini dentro il fluire torbido di quei giorni.
Guardate questo sconosciuto: non sappiamo chi esso sia, né che mestiere facesse. Era un facoltoso uomo sulla trentina, bello, indubitabilmente bello e fiero della propria cultura a cui allude il libro ma anche la parasta dorata alle spalle, decorata con raffinate grottesche.
Ci guarda, un occhio è in ombra ma l'altro, grande e vigile, ci scruta sotto sopracciglia folte, di una tenebra curata e pettinata come la barba. Appartiene al nascente ceto borghese: ce lo dice la sua eleganza ostentata ma comoda, i gioielli, un copricapo austero ma calzato con casualità. La forma conta ma è esteriore e lui lo sa bene. E' ricco e lo fa vedere ma a lui, come al pittore e come a noi, preme far fiorire sulla superficie dipinta l'intelletto vivace, la mente pensante.
Veste e gioielli lo rendono parte simile di un insieme sociale: l'arguzia e l'intelletto, da quel contesto, invece lo distinguono. Un ritratto si fa per dire entrambe le cose: io appartengo a voi ma da voi io sono diverso.
Egli sa, complice il pittore, che quella veste raffinata e quel cappello passeranno di moda, che i secoli li renderanno cimeli della storia. Ma non passerà il modo fiero di guardarci, non cambieranno il senso del comprendere e del farsi comprendere. La potente pervicacia con cui egli ci guarda è simbolo di un immutabile stato delle cose umane: la sua interiorità diventa eterna, diventa mia, diviene nostra. E' ora. Ci racconta e ci sussurra da quel fondo verde bottiglia che siamo sostanza di una civiltà potente, nobile ma malata. C'è un prima e un dopo quel lontano momento di primo Cinquecento. Un filo attraversa quel prima e quel dopo e ci lega a questo bellissimo uomo, ad altri prima e dopo di lui, rendendoci tutti concittadini di una storia fatta di ombra e luce.
Quando un ritratto ci regala questo incanto, scopriamo l'essenza reale dell'opera. Ed allora l'arte,a discapito stavolta dei suoi autori e dei loro decadenti committenti, assolve un suo misterioso dovere: documentare anche ciò che la storia, nel materiale scorrere degli eventi, tralascia in quel limbo di emozioni,gesti e pensieri fondanti che chiamiamo vita comune.

Parmigianino
Ritratto di uomo con libro,
1525 ca.

New York, Art city Gallery